Prevenzione infortuni: di chi è la responsabilità?

Posto che, in caso di infortunio subìto dal lavoratore, soltanto la condotta c.d. abnorme di quest’ultimo è idonea ad interrompere il nesso causale tra la condotta ascritta al datore di lavoro e l’evento lesivo, sussiste la responsabilità di quest’ultimo in caso di carenza dei dispositivi di sicurezza poiché la stessa non può essere sostituita dall’affidamento sull’osservanza, da parte del lavoratore, di una condotta prudente e diligente.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, con la sentenza n. 36882 depositata l’11 settembre 2015.

Perde un braccio al lavoro: di chi è la colpa? Un operaio di uno stabilimento di macinazione di pietra per l’edilizia si accorge che uno dei macchinari utilizzati per la separazione del pietrame non funziona a dovere. Decide di andare a guardare di persona quale sia il problema, apre uno sportello per controllare che la tramoggia non sia ostruita ma, trovandosi carponi su un condotto, perde l’equilibrio e, nel tentativo di non cadere giù, infila – con un gesto istintivo – il braccio nell’apertura che stava ispezionando: dentro gira un’elica. Roba da fare accapponare la pelle. Nella sentenza si parla di ‘amputazione traumatica’, il che, tradotto in vulgaris, significa che l’elica, al povero lavoratore, gli ha staccato il braccio di netto.

Ne nasce un processo penale, che vede come imputato il datore di lavoro, al quale viene contestata la lesione subita dal lavoratore a causa della violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. La prescrizione del reato, frattanto maturata, non ha consentito alcuna pronuncia definitiva nel merito. Rimangono da esaminare, però, le statuizioni (si immagina considerevoli) civili: ed ecco che la Suprema Corte deve tornare – lo fa spesso, in verità – ad occuparsi dei rapporti tra colpa datoriale e colpa del lavoratore. Quando la seconda esclude la prima? O, per dirlo meglio dal punto di vista tecnico-giuridico: quando la seconda tronca il nesso eziologico che avvince la condotta del datore di lavoro all’evento pregiudizievole?

L’evoluzione del sistema: da «iperprotettivo» a «collaborativo». Gli aggettivi virgolettati appartengono alla penna dei giudici di Piazza Cavour, e li abbiamo riportati perché fotografano perfettamente lo stato dell’arte del travagliato (anche sotto il profilo della politica legislativa) settore della sicurezza sul lavoro e del correlato groviglio di responsabilità che vi si affianca. La doppia aggettivazione va posta in correlazione con la necessità, a volte, di dover valutare il peso e l’incidenza processuale di condotte abnormi – cioè del tutto sconsiderate ed imponderabili – poste in essere dai lavoratori. Ecco che, come osservano i giudici di legittimità, vi è stata una significativa evoluzione nel sistema normativo antinfortunistico. Esso era inizialmente sbilanciato verso una protezione incondizionata del lavoratore: il datore di lavoro era «investito di un obbligo di vigilanza assoluta» che, aggiungiamo noi, solitamente coincideva anche con una altrettanto assoluta responsabilità. Oggi, invece, si è passati ad uno schema in cui i vari obblighi incombono su più soggetti e quindi anche sui lavoratori. Nonostante questa evoluzione, culturale e tecnica insieme, rimane pur vero che la carenza dei dispositivi di sicurezza o il loro mancato utilizzo sul luogo di lavoro non escludono la responsabilità del datore. Quest’ultimo, in altri termini, non può certamente limitarsi a sperare che i lavoratori siano diligenti o prudenti. Deve darsi da fare perché le norme di sicurezza siano effettivamente rispettate.

Che succede se il lavoratore versa in colpa? E’ frequente, in occasione dei sinistri sul lavoro, che anche il lavoratore ci metta del suo. Nel senso che adotti comportamenti e tenga condotte piuttosto disinvolte e, in definitiva, imprudenti. Forse è l’abitudine a svolgere determinate mansioni che fa abbassare la soglia di prudenza nel maneggiare certi arnesi o nell’avvicinarsi a determinati macchinari; o probabilmente è soltanto la necessità di procedere spediti nel disbrigo delle proprie mansioni. Che ruolo assegnare al contributo colposo fornito dalla vittima dell’incidente? La valenza interruttiva del nesso causale tra lesione e condotta colposa del datore di lavoro viene attribuita, così come sottolinea la Cassazione, soltanto ai comportamenti abnormi del lavoratore. Cioè a quelli che, per la loro imprevediblità e totale lontananza dal contesto lavorativo, non sono da inserire nemmeno nel novero delle condotte ‘possibili’. L’unanime giurisprudenza sostiene questa tesi, che è in effetti granitica. Se, invece, il sinistro si verifica per mancata formazione del dipendente non si attribuisce nessuna efficacia causale alla sua condotta imprudente.

Occorrerebbe chiarire soltanto un aspetto: cosa fare se il comportamento ‘abnorme’ è figlio del mancato addestramento? Prevale l’efficacia interruttiva derivante dall’imprevedibilità o la rimproverabile negligenza del datore di lavoro? Una cosa è certa: in questo settore è più difficile del solito cercare di equilibrare la bilancia delle responsabilità per non farla pencolare troppo da una parte o dall’altra.

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